Il re che temeva la morte

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C’era una volta un re che, c’è da riconoscergli, non amava la violenza tantomeno poteva definirsi tiranno. Tutti lo amavano e rispettavano.
Di contro, la sua natura di uomo lo rendeva uguale al più sporco, malandato, misero e reietto della società, per la paura universale della morte. E il nostro re ne aveva una paura folle. Era così tormentato da essa e dal timore che dopo la vita non ci fosse nient’altro che il nulla eterno, da decidere di prendere una decisione che i sani di mente avrebbero definito per lo meno “scellerata”. Gli venne in mente un’idea che avrebbe trasformato l’opinione pubblica la quale lo avrebbe visto poi come il più folle e sanguinoso regnante di tutti i tempi.

Una sera fece chiamare a corte il capo dell’esercito, colui che lo aveva sempre difeso e mai tradito dagli attacchi dei regni vicini. Non c’era nelle sue terre una persona di cui si fidasse di più.
“Mi dica mio sire”, salutò il comandante inchinandosi con orgoglioso rispetto.
“Tu, mio fedele servitore. Questo che sto per darti è il compito più difficile che tu abbia mai ricevuto da parte mia”, disse con voce solenne il re.
“Lei ordini e io eseguirò mio sire. Senza domande e senza timore”.
“Conosci la mia curiosità”, mai un sovrano dovrebbe usare la parola paura se è rivolta verso sé stesso, “di cosa si cela oltre la nostra vita terrena. Ho parlato con maghi, stregoni, asceti e uomini dotati di anima e spirito puri. C’è chi mi ha parlato di mondi meravigliosi, chi di inferni e chi del nulla. Tutte teorie diverse che avevano in comune una cosa: l’impossibilità di essere dimostrata. Per questo motivo ho bisogno di mandare qualcuno di fidato che possa incontrare la morte”.

Ci fu un attimo di silenzio.

Il re deglutì, si fece coraggio (meno di quello che servirà poi all’uomo davanti a sé) e proseguì: “Devo ucciderti mio caro amico e servitore”.
Il comandante lo seguiva attentamente senza dire parola alcuna e senza fare una piega.
“Mi fido solo di te. Quando avrai visto cosa c’è nell’aldilà, tu tornerai e mi riferirai tutto quello che avrai visto, svelandomi così il mistero una volta per tutte”.

L’uomo ai piedi del trono si alzò dritto. Nemmeno in quella occasione si tirò indietro. Fiero si tolse l’armatura e, mostrando il petto nudo, fu pronto a ricevere la lama della spada dritta nel cuore. Lama che lo fece cadere stramazzato a terra.

Il re fece mettere il corpo su un letto di oleandri e in attesa del suo risveglio sistemò cinque giovani vergini che avrebbero ricompensato l’eroe e informato il sovrano del suo risveglio. Passarono però giorni con solo vergini annoiate, perché il comandante non si risvegliò mai.

Il re, sentitosi tradito, fece chiamare la sua amata e unica figlia di dodici anni a cui spiegò il suo piano. “Credevo di potermi fidare del capo dell’esercito, ma ahimè mi ha tradito non facendo ritorno al castello”. Seguì così la stessa richiesta: “quando incontrerai la morte e vedrai cosa c’è dopo la vita, torna da me piccolina mia e raccontami cosa hai visto”.
La giovane fu uccisa con un dolce veleno che, le avevano garantito, l’avrebbe accompagnata dalla signora Morte con il minor dolore possibile. Il re però, vedendola contorcersi sul letto, sudando e gridando dal dolore, trasalì, pur rimanendo retto e stoico, perché era convinto che la giovane sarebbe tornata da lui.
Dopo l’ultimo respiro il corpo della fanciulla fu lasciato sopra un letto di rose bianche. La stanza fu riempita di giocattoli, pietre preziose, spezie orientali ed essenze profumate.
Attesero notti e giorni, ma la piccola non tornò mai indietro.
Il re pensava avesse incontrato la madre morta molti anni addietro e per questo la loro figlia non voleva tornare indietro.

Intestardito e sempre più convinto, cominciò periodicamente a far uccidere una o più persone, con la stessa assurda richiesta di tornare da lui e dirgli se c’era qualcosa dopo la vita.
Nel tempo ne ammazzò così tanti che uomini e donne, che avevano perso l’amata e l’amato, si proponevano come volontari, così come genitori, figli, parenti e amici delle vittime. Ma il re negava loro l’autorizzazione.
“Se vi ricongiungerete con i vostri cari non avrete più motivo di tornare indietro”, era la sua risposta, ma a parte questa regola nessun altro era esente dalla possibilità di venir scelto.
Passarono mesi di sangue e terrore per tutti quelli che erano nel regno. Finché un giorno, deluso e stanco di demandare agli altri quel compito così importante, il sovrano fece la scelta più estrema. Essendo lui stesso l’unica persona di cui si poteva realmente fidare decise di uccidersi, per vedere con i suoi occhi il misterioso mondo della morte.
Lo fece in una piazza gremita di vedovi, orfani e genitori ormai senza prole. Il re, seduto sopra una sedia dorata teneva la corona sulle gambe. Il cavaliere davanti a lui, che a causa del sovrano perse una moglie, due cugini e tre zii, estrasse la lunga spada lucente e senza alcun tentennamento, piuttosto potremmo dire con estremo vigore, la conficcò secca e dritta nel cuore, spaccandoglielo in due.
La gente in piazza rimase in silenzio, trattenendo il respiro e con gli occhi fissi sull’uomo senza vita. Un bambino si coprì gli occhi.
Il re fu portato nella sua camera all’interno del castello e adagiato sopra un letto di crisantemi, con alcuni saggi del paese rimasti a vegliare la salma in attesa che si svegliasse. Il suo ultimo ordine era stato di preparare, per il suo ritorno, la più grande festa mai vista in tutti i regni.
Ma anche in questo caso il re non riprese mai vita.

Dopo una settimana i sudditi vennero invitati a dargli l’ultimo saluto. Un uomo con il proprio figlio, che avevano assistito al viaggio di sola andata del re, si fermarono davanti al giaciglio di crisantemi, dove il bambino, rivolgendosi al padre, chiese timoroso: “Papà, non è tornato nemmeno il re. Significa che dopo la morte non c’è più nulla?”. Il padre si chinò, prese il suo fazzoletto e asciugò quel principio di lacrime ai bordi degli occhi, gli mise una mano sulla piccola guancia rossa e lo rassicurò.
Le persone non tornano perché stanno bene. Stanno meglio di qui.”
“Ma allora… perché non andiamo anche noi? Così possiamo riabbracciare la mamma”
L’uomo si ritrovò faccia a faccia con la responsabilità da genitore.
“Perché la vita è il dono più bello che potessimo ricevere… e secondo te, un dono così può essere rimandato indietro?”
“No…”
“Esatto. I regali non vanno mai dati indietro, piuttosto vanno goduti fino in fondo. Ricordi quell’acino di uva che ti portai e che tu assaporasti così lentamente da sentirne ogni sfumatura del suo gusto e del piacere che ti dava? Ecco, la vita va vissuta così.”
“Si… ma io ho paura di…”


“Piccolo mio, noi la morte già la conosciamo. E’ ciò che c’era prima che nascessimo. Stavi male allora? Avevi paura?”
“…no…”
“E così sarà anche dopo. E magari… riceveremo un altro bellissimo regalo” e il padre fece un occhiolino al figlio.
“Che regalo?” domandò il piccolo sgranando gli occhi dalla curiosità.
“Beh… sarà una sorpresa. In fondo i regali migliori sono quelli inaspettati, non trovi?”
Il bimbo sorrise soddisfatto. Alla sua età già solo sentire la promessa di un dono gli metteva allegria.
Anche l’uomo sorrise soddisfatto. Alla sua, invece, di età, regalare un sorriso e la serenità al proprio figlio era l’unica cosa che importava.
I due si presero per mano, salutarono il re e, entrambi con un sorriso, proseguirono la fila verso l’uscita per godere finalmente della festa più bella che il reame ricordasse e che i loro occhi avessero mai visto prima.

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