IL BORSONE

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Immaginate un uomo alto e grosso che grida a squarciagola con la bocca a tutta apertura per circa 10 secondi. Togliete l’audio e avrete il tipo accanto a me sulla destra che sta sbadigliando senza, naturalmente, mettere la mano davanti. Ha l’uniforme del 118, l’ambulanza dove stava s’è rotta, lasciandolo a piedi all’Alessandrino (lo stava raccontando ad un tizio) e ora sta tornando ad Ostia dopo due giorni di turni ininterrotti.

Prendete, ora, un’altra persona sovrappeso con i capelli rossicci corti davanti ed un codino dietro, di cui non riuscite a capire se è un uomo o una donna… nemmeno dopo averla sentita parlare. E’ la persona accanto a me sulla sinistra.

Ora, prendete un sacco di gente che scende dalla metro ma non prendete un borsone di quelli da palestra rimasto davanti ai nostri piedi.

L’uomo/donna lo guarda da dietro gli occhiali da sole e poi chiama timidamente una signora, pensando lo stesse dimenticando, ma nessuno l’ascolta e le porte si richiudono.

Mi guarda un po’ preoccupato. Gli chiedo se è sicuro/a che sia della donna appena scesa ma risponde di non esserlo.

L’altro tipo sulla destra ci guarda e dice: «Ma che se dovemo preoccupa’?»

Tutti e due rispondiamo con lo stesso cenno con la testa, portandola leggermente in avanti che significa “E che ne so. “

Facciamo finta di niente, ma duriamo nemmeno un minuto.

«Che ce starà dentro?»

«Eehhh a sapello…»

«Po esse che…»

«Sta bello gonfio…»

Io gli do un paio di calcetti, è morbido, presumibilmente sono vestiti. L’uomo/donna dice: «Non vor di niente, magari l’ha avvolta nei panni». Fa ridere che, come per certe malattie tanto temute, il soggetto fa paura anche nel solo nominarlo.

Uno consiglia di scendere, l’altro, mentre decide, anticipa un passo indietro.

Ci guardiamo, riguardiamo il borsone… finché tra le nostre gambe spunta una mano che lo agguanta, alzo lo sguardo ed è una signora anziana, mal vestita con i capelli unti, che era seduta lì davanti a noi. Sorride, ci guarda e dice: «Paura, eh?!»

Ride e scende dalla metro.

Una volta in più noi tre ci guardiamo. Stavolta la traduzione della smorfia è diversa dalla precedente, ma univoca: «’Tacci tua…ce stavi a fa caga’ sotto!!»

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